06/04/2019 02:10
AS ROMA MATCH PROGRAM (T. RICCARDI) - Filippo Maniero – classe 1972, detto Pippo – è stato uno degli attaccanti italiani più rappresentativi degli Anni 90. Solo in Serie A ha collezionato 238 presenze e segnato 78 gol. Numeri importanti, soprattutto se rapportati all’epoca del campionato delle “Sette sorelle” e dei grandi campioni che giocavano in Italia. Una carriera lunga, durata circa vent’anni mettendoci dentro pure le stagioni nelle categorie inferiori. Girando praticamente tutta l’Italia, arrivando pure fino in Scozia ai Glasgow Rangers. Padova, Atalanta, Ascoli, Verona, Parma, Milan, Venezia, Palermo, Brescia, Torino e anche Sampdoria. Da nord a sud, saltando il centro. Mai a Roma, alla Roma, “ma mi sarebbe piaciuto tanto venirci”, dice oggi Maniero.
È mai stato vicino a trasferirsi alla Roma, in qualche momento del suo passato?
“Sì, capitò nell’estate del 1995. Ero in ballo tra Roma e Sampdoria. Io ero al Padova e avevo alle spalle una sola stagione di Serie A. Avevo queste due richieste, per me sarebbe stato il trampolino di lancio a livelli più alti. In giallorosso già c’erano Balbo, Fonseca e si era già affacciato Totti in prima squadra. Non vedevo grandi spazi, così scelsi di andare a Genova. Ma solo per questo motivo”.
Un anno solo alla Sampdoria.
“Esatto, ma importante per la mia formazione di calciatore. Andavo in una squadra allenata da un grande tecnico come Sven Goran Eriksson e con una rosa composta da giocatori del calibro di Zenga, Riccardo Ferri, Mancini, Chicco Evani, Mihajlovic, Chiesa e due giovani forti come Seedorf e Karembeu. Il progetto che mi avevano prospettato i dirigenti della Samp era quello di affiancare Chiesa e Mancini in attacco. E lo preferii”.
Le è rimasto un buon ricordo di Eriksson?
“Senza dubbio. Lui e Ancelotti sono gli allenatori che più di altri mi hanno impressionato nella gestione del gruppo. Carlo l’ho avuto a Parma, nel 1997-1998. Dal lato umano sono stati due uomini incredibili. Facevano sentire tutti sullo stesso livello. Giovani e giocatori più esperti. Vi assicuro che non è semplice. Leggete, ad esempio, le interviste dei calciatori che sono stati alle dipendenze di Ancelotti. Non ce n’è uno che ne parli male. Compresi i comprimari”.
Passando al campo e al suo ruolo di attaccante, il difensore che più l’ha messa in difficoltà?
“Faccio due nomi: Nesta e Cannavaro. Erano bravi nella marcatura stretta, nell’uno contro uno e avevano un gran senso dell’anticipo. Per chi, come me, viveva in area di rigore, non era semplice venire a capo della loro pressione. Quando incontravo uno di questi due, non era mai una bella giornata”.
Come è possibile, invece, che uno come Nesta andasse tanto in difficoltà con Marco Delvecchio?
“Beh, Alessandro era molto bravo a neutralizzare i centravanti d’area. Chi si metteva vicino alla porta e non si muoveva tanto di lì. Io ero così. Ma lo erano pure gente come Vieri, Trezeguet, Batistuta, Inzaghi, Hubner. Delvecchio era un attaccante più mobile, così come Montella. Entrambi si andavano a cercare la palla in giro per il campo. In questo caso, per un difensore diventa più complicato perché perde i suoi punti di riferimento. E Nesta, nei derby contro Montella e Delvecchio, andava spesso in difficoltà. È una questione di caratteristiche, nulla di più”.
Ha citato grandi attaccanti della sua epoca. Francesco Totti che avversario è stato?
“Un giocatore immenso. Rendeva possibili giocate per altri impensabili. Mi divertiva vederlo
all’opera, pure se ero dall’altra parte della barricata. A casa ho ancora una sua maglia, la
scambiammo alla fine di un Venezia-Roma”.
Di che anno?
“È una maglia rossa della Diadora, della stagione 1998-1999. Vincemmo noi quella partita, 3-1. Io segnai un gol e gli altri due li realizzarono Recoba e Ballarin. Mentre fu di Di Biagio la rete della Roma”.
Era il Venezia allenato da Novellino e di Zamparini presidente.
“Esatto. Zamparini era letteralmente innamorato di me come calciatore. Non lo dico per vantarmi, è solo cronaca. Sono stato alle sue dipendenze per quattro anni a Venezia e poi mi portò pure a Palermo quando divenne proprietario del club siciliano. Con lui ho sempre avuto un grande rapporto e mi ha dato tanto"
La sua vita oggi?
“Mi piace, insegno calcio ai giovani e mi soddisfa come cosa, cercando di trasmettere il mio
bagaglio di esperienza accumulata negli anni nel calcio professionistico”.
È alla guida dell’Aurora Legnaro Calcio: la società della sua città natale, in provincia di Padova.
“Si è trattato di un passaggio naturale. Lavoro a casa mia, mi diverto e sono gratificato. Alleno la prima squadra, che milita in Promozione, da un paio di anni. Otteniamo buoni risultati in campo, ma non è l’unico aspetto che ci interessa. In particolare, con altri amici, cerchiamo di dare ai ragazzi le stesse linee guida di comportamento. Basate sull’educazione e sul rispettare le regole. Concetti basilari per questo sport, ma anche per la vita di tutti i giorni. Lo ripeto spesso, il calcio nei primi anni deve rappresentare uno svago e un divertimento”.
Qual è il suo obiettivo da tecnico e istruttore?
“Quello di costruire un buon settore giovanile, di formare giovani calciatori per la nostra prima squadra. E poi se qualcuno sarà in grado di salire un gradino più alto, saremo ben contenti di accompagnarlo. Da quest’anno abbiamo stretto una collaborazione con l’Hellas Verona, proprio in questa ottica”.
Tornando indietro, c’è una cosa che non rifarebbe?
“No, anzi, sono soddisfatto della carriera che ho avuto e dei gol che ho segnato. Sono riuscito a ritagliarmi uno spazio negli anni gloriosi del calcio italiano. D’altronde, se ancora oggi mi cercano per rilasciare delle interviste è perché qualcosa di positivo l’ho fatto. Ma, come già detto, non mi sarebbe dispiaciuto giocare nella Roma. Questo lo posso dire. Pazienza…”.