15/05/2019 14:00
LA REPUBBLICA (S. RIZZO) - Si ripete spesso che il calcio ha bisogno di simboli, in un’epoca dove nello sport contano soltanto i soldi. E non c’è dubbio che Daniele De Rossi lo sia stato, un simbolo. Importante, come Francesco Totti prima di lui, e in un momento come questo forse ancora di più. Per la Roma, ma anche per Roma. Questa è una città frastornata, con la qualità dei servizi al minimo storico: dove le stazioni della metropolitana possono restare chiuse per mesi perché le scale mobili non funzionano. Una città turbata dalle fragili condizioni sociali che scatenano paure capaci di alimentare vecchi fantasmi, e la squallida gazzarra fascista a Casal Bruciato ne è soltanto l’ultima dimostrazione. Una città priva di solidi punti di riferimento, amministrata male e di fatto abbandonata a se stessa dallo stato centrale. Una città bloccata da anni, appesa a progetti che mai si concretizzano, fra polemiche, ingorghi burocratici e strascichi giudiziari. A partire, va ricordato tanto più in questa circostanza, dallo stadio della stessa Roma. Anche le città, però, hanno bisogno di simboli. E sembra banale dirlo, ma una città in questo stato dovrebbe essere molto attenta a privarsene, fossero anche soltanto simboli sportivi. Considerando che lo sport, e questo sport in particolare, possono avere talvolta su una comunità urbana insospettabili virtù taumaturgiche. Ed è questo, più del fatto in sé, il vulnus che si porta dietro il non volontario divorzio del capitano della Roma Daniele De Rossi dalla sua squadra. Si dirà che non è il primo caso del genere. Accadde un episodio del tutto simile, qualche anno fa, ad Alessandro Del Piero, che fino ad allora veniva considerato una bandiera della Juventus. Andò via in circostanze analoghe e senza particolari conseguenze sul club e sulla città. Ma Torino non è Roma. Quando Del Piero ha dovuto lasciare la Juventus il capoluogo piemontese era tornato a essere da un bel pezzo una città di livello europeo, pulita e con i servizi efficienti. Mentre oggi invece la capitale d’Italia soffre tremendamente per tutti i mali che purtroppo conosciamo, dai rifiuti ai trasporti pubblici. E anche la Juve non è la Roma. All’epoca la squadra orfana di Del Piero giocava le partite già dal 2011 nel proprio stadio, costruito in un paio d’anni, e il fatturato cresceva a vista d’occhio. Mentre lo stadio della Roma è in un limbo surreale da almeno cinque anni, e c’è chi continua a sostenere che la sua incerta realizzazione potrebbe perfino indurre l’attuale proprietario della società calcistica, l’americano James Pallotta, a gettare la spugna. Certo si parla di società quotate in borsa, e che come tutte le aziende del calcio professionistico perseguono innanzitutto la logica del profitto, tanto che l’interesse economico risulta ormai ovunque del tutto prevalente rispetto a quello strettamente sportivo. Le scelte si fanno innanzitutto rispettando quell’obiettivo, anche perché una società che sta sul mercato qual è la Roma deve rendere conto pure ai risparmiatori che investono comprando le sue azioni. Lo sappiamo bene. Ma è comunque singolare che la dirigenza di un club così radicato in una città dove il calcio scandisce la vita quotidiana (quotidiana!) di centinaia di migliaia di persone non abbia valutato, spingendo De Rossi verso l’uscita, come il peso di una tale decisione andasse ben oltre i futuri risultati agonistici e dunque anche oltre il tornaconto economico. Investendo in pieno il cuore di una città che per varie ragioni non sta attraversando una delle fasi migliori della sua storia recente. Senza poi capire che sia i risultati sia i profitti, in un business così speciale, non si raggiungono se il clima intorno a quel business non è altrettanto speciale. E davvero crediamo di non sbagliare prevedendo che la fine dell’epoca di Daniele De Rossi, per come si è consumata questa vicenda, non lo migliorerà affatto.