30/05/2019 13:54
LA REPUBBLICA (C. BONINI - M. MENSURATI) - Se si deve stare alle immagini di Francesco Totti che, livido, si congeda da Daniele De Rossi, allora si deve concludere che alle 22.30 di domenica 26 maggio una città ha definitivamente perso l’innocenza e divorziato dal suo oggetto d’amore, l’As Roma. Messa per intero in carico alla proprietà americana, la bancarotta sportiva di un annus horribilis, di cui quell’ultimo fotogramma sembra l’epitaffio, si porta via tutto. Tutto, tranne un dettaglio. Sotto il diluvio dell’Olimpico, nell’abbraccio tra i due si sente un misterioso “non volevo”, ma non si sa chi lo pronunci. Chi non voleva? Che cosa non voleva? Un’inchiesta di Repubblica - che ha avuto accesso a fonti dirette e carteggi interni, compresa una mail che getta una nuova luce sul rapporto tra i due capitani - può oggi documentare un grumo di ricatti e trame di spogliatoio che dice molto non solo della Roma e di Roma, ma anche del doppiofondo del calcio professionistico. Del peso politico dei club, degli appetiti che suscita, degli strumenti non ortodossi per conquistarlo. Del ruolo dei campioni e delle bandiere. È una storia che comincia a metà agosto del 2018.
“Vi faccio arrivare decimi” - L’estate della Roma è gonfia di attese. I conti della società sono a posto. Il fatturato ha toccato i 250 milioni di euro, il patrimonio dei calciatori a libro supera i 200 milioni che di fatto si raddoppiano a valore di mercato. Sono stati rispettati i paletti del fair play finanziario, la squadra è dodicesima nel ranking Uefa, è reduce da una semifinale di Champions e le statistiche la danno nona tra i club europei per investimenti in calciatori negli ultimi dieci anni. Sono state fatte cessioni dolorose, Alisson e Nainggolan, ma l’ultimo campione del mondo preso Nzonzi, è accolto come un gran colpo. Tiene mucho futbol, assicura il ds spagnolo Monchi. Non la pensa così DDR, Daniele De Rossi. Ritiene quell’acquisto un avviso di sfratto, considerando il francese un suo doppione. E - come raccontano tre diverse fonti - chiede, anche attraverso il suo agente, la rescissione del contratto. Affronta personalmente la dirigenza e in un momento di collera avvisa: «Se non risolviamo la cosa, vi faccio arrivare decimi». Non è un grande inizio. Lo strappo viene ricucito. Ma quello scricchiolio è il prologo di quanto accadrà nell’arco di soli quattro mesi.
Le idi di dicembre - La prima parte della stagione è ricca di altri pessimi presagi. La Roma cade in casa del Bologna, subisce le rimonte inspiegabili del Chievo all’Olimpico e del Cagliari alla Sardegna Arena. La tengono a galla la vittoria nel derby e la qualificazione agli ottavi di Champions. Ma qualcosa si è rotto. Tra l’allenatore e la squadra, tra la squadra e la società. Rappresentato all’esterno come un «gruppo stupendo e coeso», lo spogliatoio è in realtà una polveriera. Di cui Monchi non sembra avere il sentore. La mattina del 16 dicembre Ed Lippie, preparatore atletico e uomo di massima fiducia di Jim Pallotta, che ha appena lasciato dopo tre anni la Roma per tornare a Boston, si sistema di fronte al suo pc. Ha delle cose importanti da scrivere, che il suo presidente deve sapere. Una fronda, e che fronda, chiede tre teste: l’allenatore, il direttore sportivo, e Francesco Totti. Quattro giorni prima la Roma ha perso con il Viktoria Plzen in Champions e si prepara alla partita in casa con il Genoa. Ed Lippie sente che non c’è più un minuto da perdere. In una lunga mail spalanca l’abisso in cui stanno sprofondando squadra e allenatore.
I senatori - Con prosa anglosassone, asciutta, spiega a Pallotta di avere ancora occhi e orecchie dentro Trigoria. Le sue fonti — scrive — lo informano regolarmente con messaggi e telefonate. E quello che raccontano è sorprendente. Spiega che i quattro “senatori”, che cita — De Rossi, Kolarov, Dzeko e Manolas — ritengono il gioco di Di Francesco dissennato, dispendioso sul piano della corsa ma misero su quello della tattica. Lamentano l’indebolimento della squadra. Il tecnico - dicono da Roma - è in preda alla nevrosi dovuta al rammarico di aver accettato da Monchi un mercato inadatto al suo 4-3-3. Circondato da uno staff non all’altezza, vittima della sua stessa presunzione di riuscire ad “adattare” calciatori non compatibili col suo gioco.
Il narcisista spagnolo - Già, Monchi. Lippie scrive che a Trigoria è visto come il fumo negli occhi. Lo vivono come un narcisista che ha riempito la squadra di giocatori per i quali vincere o perdere è la stessa cosa. Gli rimproverano doppiezza nei rapporti, insofferenza nei confronti dei giocatori di seconda fascia, capacità manipolatorie nelle informazioni in uscita da Trigoria e un mercato che non è passato attraverso una corretta due diligence.
Scacco all’ottavo Re -E tuttavia è l’ultima delle informazioni che Lippie scrive al presidente quella che prefigura la catastrofe. Se le fonti dell’ex preparatore dicono il vero la squadra soffre la presenza di Totti nel suo nuovo ruolo di dirigente. Le percezioni negative che trasmette allo spogliatoio. L’ottavo re di Roma, il suo figlio prediletto, è mal tollerato — così scrive Lippie — da coloro a cui ha consegnato il testimone e che pubblicamente non smettono di celebrarlo. Le fonti di Lippie chiedono che l’ex “Capitano” venga allontanato da Trigoria se necessario cacciando Di Francesco cui Totti è legatissimo. E sostituendolo con qualcuno che lo tenga lontano.
Gli uomini dei pizzini - Ed Lippie svela quindi l’identità delle sue fonti. Sono il medico sociale Riccardo Del Vescovo e il fisioterapista Damiano Stefanini. Indica in particolare Del Vescovo come il più convinto che la Roma debba essere “detottizzata”. Pallotta trasecola. E con lui, i suoi soci, facoltosi signori che non amano mettere i loro soldi in un circo senza domatori. Monchi, Totti e l’intera struttura societaria, a partire dall’allora dg Mauro Baldissoni e dal media strategist Guido Fienga, vengono informati della mail. Monchi rassegna le dimissioni (che vengono respinte). Per Totti quel racconto è una ferita profonda. Occorre mettere mano dentro lo spogliatoio - dice alla società - e bisogna cominciare proprio dal medico e dal fisioterapista; le cose non potranno che andare peggio. Ha ragione, Totti. In quel momento, però, la Roma si deve ancora giocare tutti i traguardi di stagione e Monchi e Di Francesco sconsigliano di aprire una crisi che terremoterebbe la squadra. Venire o meno a patti con i senatori: è l’antico dilemma del calcio, a maggior ragione a Roma dove lo spogliatoio ha un filo diretto con la curva. Si sceglie la via di sempre: metterci una pezza. E rimandare il redde rationem con senatori e whistleblowers. La società chiede a Monchi un piano b. La possibilità, se la situazione sportiva dovesse precipitare, di immaginare un nuovo allenatore. Monchi il piano b non lo ha. Anzi, rilancia: «Se va via Di Francesco vado via anch’io». Pallotta e i suoi soci fanno la sola cosa nella loro disponibilità. Ridistribuiscono le deleghe e nominano ceo Guido Fienga un uomo con una lunga esperienza in finanza. A Baldissoni va la vice presidenza, per portare a casa il progetto vitale per la crescita del club: il nuovo stadio. La squadra intanto entra in un tunnel da cui non uscirà più. Subisce una rimonta con l’Atalanta, l’umiliazione dell’ennesimo 7-1, in Coppa Italia a Firenze, e perde male il derby. Di Francesco chiede alla società di essere mandato via se questo può risolvere quel conflitto sordo con lo spogliatoio che ormai è un segreto di Pulcinella. Ma gli ottavi di Champions sono vicini: la doppia sfida col Porto è l’ultima chiamata.
Redde rationem - Dopo il ko di Champions vengono accompagnati alla porta, insieme a Di Francesco e Monchi anche Del Vescovo e Stefanini. Nessuno fuori da Trigoria si chiede il perché, ci si accontenta della versione ufficiale, quella che li vuole responsabili dei troppi infortuni. Lo spogliatoio il perché lo conosce. E prende le difese di Stefanini, cui De Rossi è legatissimo (è una delle tre persone che il capitano citerà nella sua lettera di addio). I senatori si convincono che la pulizia abbia un mandante, Francesco Totti. E tra lui e De Rossi scende un gelo che durerà fino alla fine. Fino a quell’ultimo fotogramma di domenica 26, con Totti sotto l’ombrello, le mani in tasca e una faccia che è una maschera di amarezza per quella festa triste di cui conosce il non detto.
L’ultima curva - I modi e i tempi dell’infelice addio tra De Rossi e la Roma si comprendono ora meglio. E si comprende ora meglio anche per quale motivo ci siano versioni opposte su chi abbia mancato di rispetto a chi. De Rossi lamenta che la società non abbia nemmeno voluto discutere di un rinnovo “a gettone”; la società sostiene che sia stato Daniele ad aver cambiato idea all’ultima curva. Quel che conta, ed è più interessante, è come quell’addio turbolento diventi narrazione, senso comune, utile a chi vede in questo psicodramma l’occasione decisiva per sottrarre agli americani il giocattolo. Mentre il senatore Maurizio Gasparri monta una canea addirittura in Senato, come se i destini di una società per azioni fossero affar suo, la curva e le radio soffiano sulla piazza. Una città che non manifesta per le buche in cui sprofonda assedia la sede della Roma. Striscioni di vergogna affacciano nelle capitali del mondo e come in un capitolo di Suburra due figuri «con accento romano» terrorizzano per una rapina da quattro soldi (la seconda in poco tempo) la madre di Nicolò Zaniolo, l’ambito gioiello della rosa, il ragazzo su cui ricostruire o, nel caso di una cessione, abdicare. Per non dire di singolari striscioni “No Stadio” che improvvisamente appaiono in curva come a voler ulteriormente fare impazzire la maionese.
Er viperetta - A Roma, e intorno alla Roma, non succede mai nulla per caso. Gli americani, al netto di qualunque considerazione sportiva, hanno oggettivamente rotto l’immarcescibile sistema di relazioni che vuole il proprietario del club più importante di un primo ministro. Lo stadio, poi, ha mosso appetiti formidabili, e aperto scenari impensabili. Un certo generone romano, quello che fa gridare alla curva “la Roma ai romanisti” in realtà nella Roma vede solo una straordinaria opportunità. Era già così ai tempi della Rometta di Anzalone e Ciarrapico figurarsi oggi nel mondo dei balocchi di Nike, Qatar Airways, Hyundai. Non sorprende dunque che, in questa temperie, mentre l’AdnKronos di Pippo Marra (storicamente legato alla famiglia Sensi, della cui Roma sedeva nel Cda) accredita una fantomatica offerta dagli emiri del Qatar, torni ad affacciarsi un vecchio appassionato dell’oggetto: il presidente della Samp Massimo Ferrero. Er Viperetta fa recapitare, informalmente, l’ennesima offerta alla dirigenza della Roma dicendosi disposto ad acquistarla (per un piatto di lenticchie). Ferrero non è il primo e non sarà l’ultimo pretendente. Del resto già tre anni fa Aurelio De Laurentiis aveva confidato alla stessa dirigenza romanista di averci fatto un pensierino. Aveva un’offerta per vendere il Napoli, sarebbe stato pronto a prendersi la squadra della Capitale.
Rifondazioni - Acquistando il club, Pallotta disse che Roma non è stata costruita in un giorno. Nessuno gli aveva spiegato che avrebbe ciclicamente dovuto erigerla ripartendo ogni volta dalle sue stesse macerie. Da americano ha reagito con pragmatismo. Lo spogliatoio sarà purgato dai congiurati. Arriverà un nuovo allenatore, un nuovo ds, nuovi medici e nuovi fisioterapisti. La domanda è se la città riuscirà a liberarsi dei suoi pifferai e dal suo eterno istinto cannibale.