09/02/2024 07:54
Non dovevi essere Einstein e nemmeno Marilyn Monroe (un vero genio, a partire dal sembiante più fuorviante della storia, l’IQ accertato almeno pari a quello del “collega” tedesco) per sapere che era il ragazzo di Ostia Mare il cavallo vincente. L’unico su piazza in grado di liberare Roma e la Roma dalla morsa del Lusitano e delle sue paturnie sempre più ammorbanti. Troppe cose giocavano a suo favore, a cominciare dal Timbro supremo, quello del destino, in attesa di capire a chi spettano i diritti d’autore. Testo di una storia già scritta. Che in qualche modo, come un baco leggiadro, aveva messo la sua tana nelle teste del mondo romanista. Incluse quelle dei Friedkin padre e figlio, ispirati al punto di farsi dare rim-beccata giusta al momento giusto, quando la stagione era al suo bivio. (...) Sconvolge più che altro prendere atto che, dopo appena tre settimane, la tumultuosa marea dei vedovi di José non è più che un flebile e quasi impercettibile lamento. Prova definitiva che di un’ipnosi di massa s’era trattata. Se persino quelli che più bruciavano d’amore oggi fanno fatica a simulare un cordoglio di maniera. Chiedetemi se sono sorpreso. «Sorpreso io?Sareste sorpresi di quanto poco io sia sorpreso», direbbe l’inimitabile Gary Oldman di Slow Horses. E non solo per l’ovvia ragione che di questi tempi nulla dura più di un fuggevole pensiero. Circostanze propizie hanno dato una mano al pivello, a cominciare dal calendario, un babà vero, e qualche discreto aiuto della sorte, a Salerno più che altro. Ma, attenzione, non basta a spiegare. In questi venti giorni Daniele ha indovinato tutto. A cominciare da tutte, dico tutte, le parole che ha messo in fila come allenatore della Roma. (...) Cosa fa Daniele De Rossi, sin dal primo giorno del suo sogno realizzato? Spalanca le finestre di Trigoria e fa entrare il sole e azzarda i primi timidi sorrisi. Spazza via la faccia torva e le parole livide del predecessore. Il rumore del suo scontento. Sembrava una macchia indelebile. Era solo polvere. Come tutto. Daniele non si vergogna di firmare in bianco la sua felicità di essere lì. Non come un leader da idolatrare, ma come parte di un tutto a cui infondere gioia e bellezza. Lo fa capire, eccome se lo fa capire, che non è il suo altare in ballo, se ne frega di avere o no un mondo o quattro scemi ai suoi piedi. I suoi giocatori li ama, non perché disposti a morire per lui (tipico delirio delle patologie narcisistiche), ma perché li percepisce complici e fratelli dell’impresa comune. Vi pare poco? È tutto. La rivoluzione di Daniele De Rossi nasce da qui. (...)
(gasport)