19/09/2024 10:54
Ha lasciato Trigoria con l’aria cupa di chi sognava un altro destino, un futuro diverso. Più bello, più lungo. Forse il problema non era Daniele De Rossi, né il suo metodo di allenatore o il suo credo tattico. Ma Roma, la città, la sua essenza. E quella capacità unica e straordinaria di rapportare ogni cosa all’eterno. De Rossi lo sapeva, ha sempre saputo anche lui che non sarebbe durata. Persino mentre sceglieva di misurarsi con la sfida più grande della sua vita: allenare il club che lo ha cullato, cresciuto, e poi fatto diventare grande. Casa sua.
A gennaio aveva preso il posto di Mou, il tecnico più vincente del calcio. E lì si era già capito che qualcosa strideva. Però De Rossi è sempre stato un coraggioso, le sfide non gli hanno mai fatto difetto: «La Roma non si rifiuta. Non è una scelta per la nostalgia del passato. Voglio giocarmi le mie carte e ho chiesto di essere trattato da allenatore, non da ex giocatore. Me la giocherò fino alla morte per rimanere». Invece non è durata. Anzi, è finita prima del previsto. L’illusione covava in un rinnovo firmato da poco: tre anni in più di contratto, fino al 2027.
Mercoledì 18, in una mattina qualunque, lo hanno cacciato via. «Per l’interesse della squadra», hanno scritto con poco garbo nel comunicato. Come se De Rossi non facesse l’interesse della Roma. Al suo posto hanno preso Ivan Juric, che prima è stato sulla panchina di Mantova, Crotone, Genoa, Verona, Torino. Perché il calcio, figuriamoci, continua.
Resta però un senso di impotenza in questo divorzio. Un divorzio banale, il primo della Serie A di inizio stagione (dopo appena quattro giornate di campionato). Banale sì, se solo si fosse consumato da un’altra parte, in un’altra città. Non a Roma, non con De Rossi. Roma resta, il resto passa. La normalità non è ammessa.
[...] De Rossi se n’è andato via da Trigoria a tutto gas, in macchina. Le strade eterne della sua città lo aspettavano, come sempre. La Roma non ha avuto la stessa pazienza, arriva un momento in cui non sei più futuro.
(Domani)