Vie d’uscita dalla crisi «Ai club serve una visione industriale»

30/03/2013 10:18

Grande esperto di welfare e mercato del lavoro, Boeri ha fatto più di un’incursione sul campo di gioco. L’anno scorso, per esempio, ha dato alle stampe il libro Parlerò solo di calcio (edito da Il Mulino); inoltre ha scritto, a quattro mani con Battista Severgnini, un capitolo dedicato proprio al declino del calcio italiano all’interno dell’Handbook on the Economics of Football, testo accademico di prossima pubblicazione.



Perdita di 292 milioni, costi stabili a 2,27 miliardi e fatturato in lievissima crescita a 1,64 miliardi, indebitamento in continuo aumento, con 1,63 miliardi di debiti netti, quattrocento milioni in più in tre anni. È questa la fotografia scattata sui bilanci della Serie A della scorsa stagione.


«Il calcio italiano si trascina lo storico handicap di non riuscire a diversificare i ricavi, unicamente legati allo sfruttamento dei diritti tv e ormai soggetti a micro-incrementi. In più fa fatica a comprimere i costi. Per la verità qualcuno ha iniziato a farlo, si intravedono sintomi di investimento sui giovani, sul vivaio, ma sono ancora esperienze isolate. Senza dimenticare che quando si comprimono i costi lo si fa a detrimento dei ricavi perché tagliando gli ingaggi dei top-player si può correre il rischio di impoverire lo spettacolo prodotto e, di conseguenza, l’interesse di pubblico e sponsor».





Le venti società di A sono esposte per quasi un miliardo (976 milioni per la precisione) verso gli istituti di credito tra fidi, mutui, factoring, leasing e quant’altro. I debiti finanziari sono più che raddoppiati negli ultimi 5 anni. È questo il vero dato preoccupante?


«In effetti, la situazione è molto difficile. Le squadre, quando raggiungono una certa dimensione, diventano molto popolari e si verifica quel che noi chiamiamo azzardo morale: i club pensano che ci sarà sempre qualcuno che interverrà per salvarli, vista l’attenzione di cui godono presso il pubblico. Basti pensare al caso della Roma. Ecco perché al giorno d’oggi, nel momento in cui si parla di stretta creditizia ci si riferisce alle piccole imprese e non di certo alle squadre di calcio. Più in generale, l’indebitamento dà l’idea dell’insostenibilità e non si vede una tendenza alla riduzione dello stesso».





Perché si è arrivati a questo punto?


«Le ragioni strutturali risiedono nel fatto che, in questi anni, le società hanno investito molto sull’immagine, gonfiando parecchio il monte-stipendi. E poi si sono vendute anima e corpo alle tv. È una spirale che non si interrompe. La strada maestra è quella di diversificare i ricavi. E poi di essere più efficienti sugli investimenti nei calciatori».



Cioè?

«Nel nostro ultimo studio abbiamo calcolato l’indice di efficienza: il costo stipendi per punto in classifica in Serie A. Negli ultimi 5 anni Milan, Inter, Roma e hanno speso in media tra 1,3 e 3,3 milioni di euro per punto, mentre
, , Lazio e Udinese hanno speso tra 500 mila euro e 1,5 milioni per punto. Ci siamo posti la domanda: è possibile migliorare le performance sportive tenendo sotto controllo le spese? Comparando il periodo 2002-06 col 2007-11 si scopre che l’Udinese ce l’ha fatta: ha ridotto il costo per punto del 7% e ha aumentato il punteggio in classifica del 10%. Non a caso, l’Udinese investe tantissimo nello scouting. Un’altra esperienza interessante è quella del Catania».






Tuttavia le esigenze di una big, in termini di aspettativa, sono differenti da quelle di una cosiddetta provinciale…

«L’ideale sarebbe un sistema chiuso tipo modello americano. Basti pensare ai danni prodotti dalle retrocessioni. Sarebbe più facile in tal modo studiare un sistema di compensazione».





Quanto alla sostenibilità economica, una soluzione non potrebbe essere quella di applicare su scala nazionale il fair play finanziario dell’Uefa?

«Già ho dei dubbi che a livello europeo il sistema sanzionatorio regga. Il fair play farebbe bene, eccome, ma si immagini cosa potrebbe succedere se venisse esclusa dal campionato una squadra popolare».





Altre vie d’uscita dalla crisi dei conti?

«Stadi di proprietà, maggiore attenzione a marketing e merchandising, ripristino di un rapporto caldo e sano coi tifosi, più investimenti sui settori giovanili e sul reclutamento. Inoltre una profonda riflessione andrebbe fatta sulla struttura di governance. In Italia abbiamo un assetto societario in cui campeggia il proprietario dominante che spesso ha interessi legati all’apparizione, all’immagine, e questo lo porta a logiche di investimento differenti da quelle industriali: la società calcistica può essere in perdita, quel che importa è il ritorno d’immagine. Il modello tedesco è molto interessante. Una governance capace di coinvolgere di più le comunità locali, come avviene in Germania, permetterebbe di avere bilanci sostenibili».