La Fiorentina di Montella

07/12/2013 14:34

ROMANI DI FIRENZE - Tutto inizia nel maggio del 2012, quando i Della Valle iniziano la stesura di un nuovo progetto e si affidano a Daniele Pradé che nella Roma aveva compiuto l’intera scalata: da semplice collaboratore a direttore sportivo, in un quinquennio vissuto alla continua ricerca di idee così da sopperire all’esiguità di fondi. Il successore di Corvino si insedia al timone “tecnico” di viale Manfredo Fanti 4 e compie in Toscana quello che aveva in mente per la capitale: il primo atto ufficiale è convincere Vincenzo Montella, l’ultimo tecnico dell’éra Sensi, a trasferirsi al “Franchi”, abbastanza lontano per dimenticare i rumori di Roma, altrettanto vicino per far riecheggiare fastidiosamente, nella capitale, eventuali successi. Dopo settimane in cui i giornali si riempiono di quella che sarà la nuova Roma di Montella, è Pradé a consegnare la propria squadra al tecnico reduce dalla stagione a Catania.

Scelto il tecnico, i due fanno salire la sul ponte elevatore e procedono al restyling: via Montolivo, Kroldrup, Amauri, Boruc, De Silvestri, Behrami, Gamberini, Felipe e anche Alessio Cerci, nuovamente ceduto da Pradé che già lo aveva indirizzato verso Firenze due anni prima. La nuova viola “monta” un assetto alla spagnola: Pizarro, Aquilani e Borja Valero ne formeranno il motore, Savic, Tomovic, Roncaglia e Toni la carrozzeria per resistere all’urto della Serie A. Il primo giro è da applausi: 4° posto a 70 punti, dietro a , e Milan, che la beffa sul traguardo in modi che ancora offendono i tifosi viola. Ma la vera rivoluzione è nel gioco: un tiki-taka spagnolo imbevuto nella concretezza italiana, in grado di spezzare alcuni luoghi comuni sull’inadattabilità degli iberici alla Serie A. Un messaggio che arriva a Roma, dove dopo il barcelonista Luis Enrique, cade anche il totem di Zeman.

L’ABIURA (PARZIALE) - I complimenti per un calcio d’avanguardia, le strette di mano per un campionato oltre le aspettative, l’imbarazzo provocato nelle stanze di Trigoria, però, non bastano a sedare le ire per il 3° posto scippato, col ghigno, dal Milan. Anzi, l’allenatore della sembra voler cambiare rotta e dal ritiro fissa le linee guida: «Voglio una squadra brutta ma concreta». Frasi che vengono ripetute anche dopo l'ultima vittoria in casa con il Verona. «Dobbiamo essere più cinici». Così, dopo aver scommesso sul rilancio di Giuseppe Rossi, salutati Jovetic e , il 2° atto rivoluzionario si concretizza con l’arrivo di Mario Gomez. Un panzer da 189 centimetri, l’antagonista “storico” dell’aeroplanino che si faceva beffa dei giganti che affollavano le aree grazie a colpi che mischiavano tempismo e capacità tecniche. La trasformazione in allenatore era completata, per chi, fin dai primi tempi, sembrava quasi in sofferenza per essere costretto oltre la linea laterale. Anche l’aria da studente che lo accompagnava a nei dialoghi con prima del suo debutto da allenatore è un ricordo nel cassetto dove ha ripiegato anche gli aeroplanini da copyright di Montella.

Ora, la sua ha meno vezzi e denti più aguzzi che permettono di lasciare ferite più profonde nell’avversario, come quel 4-2 d’antologia rifilato alla , rivale senza pari per i tifosi gigliati. Dopo l’assestamento iniziale, perso Gomez per infortunio, la si è ritrovata sugli appunti della passata stagione, rispetto alla quale il modulo preferito è un , invece del 3-5-2, in cui il possesso palla non è più un dogma ma un’arma per tenere sotto controllo situazione e risultato. Più vicina a Capello, meno a Guardiola. Basta guardare dentro la storia della Roma per capire le ragioni del cambiamento.

MB